Le vicende connesse all’Ucraina ripropongono, a gran forza, il tema della dipendenza energetica del nostro Paese. L’Italia è, infatti, uno dei Paesi europei con la più alta dipendenza energetica dall’estero. E’ noto, infatti, che nel 2021 le importazioni da altri Paesi di combustibili fossili, ovvero petrolio, gas e carbone, hanno coperto ben il 77% del fabbisogno nazionale, a fronte del 23% soddisfatto dalla produzione nazionale (per la maggior parte costituita da fonti rinnovabili). E al primo posto tra i paesi di approvvigionamento troviamo la Russia, che copre il 25% del nostro fabbisogno energetico e da cui dipendiamo significativamente per tutte e tre i combustibili fossili, con il 40% delle importazioni di gas, il 12% di quelle di petrolio e ben il 52% di quelle di carbone.
Come ben sanno i nostri lettori, da sempre le politiche energetiche hanno un ruolo centrale ai fini delle elaborazioni di politica estera ed in termini di sicurezza nazionale. Le politiche energetiche normalmente impegnano i Paesi in una serie di negoziati a geometria variabile, bilaterali o multilaterali, necessari per tutelare gli interessi interni e promuovere collaborazioni con Paesi fornitori e partner. In questo contesto, la Farnesina riveste un ruolo centrale nel conciliare le priorità nazionali con l’azione internazionale, e nel curare il coordinamento con il Sistema Paese, al fine di promuoverne la competitività e sostenibilità di lungo periodo.
L’idea di fondo, che vorrei condividere con voi lettori, è quello dell’intima connessione tra la questione energetica nazionale (leggasi: “l’indipendenza energetica”) e la riconversione del sistema produttivo italiano verso un modello più friendly con l’ambiente. E’, sottolineo, una personale convinzione che non trova molto eco sulla stampa e che non ho avuto ancora modo di confortare con un pubblico dibattito che, al contrario, auspico.
Su quest’ultimo aspetto, in effetti, va preliminarmente evidenziato come l’Italia, in linea peraltro con il ruolo guida globale svolto dall’UE, ha di fatto già centrato gli obiettivi di riduzione delle emissioni climalteranti fissati per il 2020. Non paga di questo il nostro Paese ha altresì rilanciato il proprio impegno verso i traguardi, invero assai più impegnativi del 2030 con il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima/PNIEC. Peraltro – accelerati dalla crisi Ucraina – sono in aumento, nel mix energetico nazionale, i contributi delle fonti rinnovabili, diminuisce il peso del petrolio, mentre diventa residuale quello dei combustibili solidi (di cui si cesserà l’utilizzo per la produzione di elettricità entro il 2025). E la guerra sta inoltre spingendo verso l’ulteriore aumento della nostra efficienza energetica, in particolare, con la pressione sulla riduzione dei consumi domestici. L’obiettivo ultimo è, naturalmente, la neutralità climatica entro il 2050, ovvero, in altre parole la “somma zero” tra emissioni ed assorbimenti di CO2.
Peraltro, gli obiettivi dell’Italia sono in linea con quelli degli altri partner europei, e quanto previsto in ambito UE dall’Unione dell’Energia (sicurezza e solidarietà; un mercato energetico pienamente integrato; efficienza energetica e moderazione della domanda; decarbonizzazione dell’economia; ricerca, innovazione e competitività) e dall’European Green Deal, che sancisce l’obiettivo della neutralità climatica al 2050.
Dunque a ben vedere la trasformazione dell’attuale sistema di consumo energetico verso fonti alternative al carbone, petrolio e gas sembrerebbero andare a vantaggio del nostro Paese e quindi, in altri termini, la scelta green permetterebbe di poter far fronte al c.d. “trilemma energetico”: ovvero, di poter disporre di forniture sicure, stabili e prevedibili, a costi competitivi per famiglie ed imprese, senza venire meno all’impegno inderogabile della sostenibilità di lungo periodo.
Sotto un altro aspetto dobbiamo tuttavia riflettere su come gli sforzi già compiuti dal nostro Paese, e quelli ancora da fare per una effettiva transizione energetica verso fonti d’energia pulite e rinnovabili, possono essere vanificati se non accompagnati da una azione comune che spinga anche Paesi a noi non geograficamente prossimi alla trasformazione del loro sistema economico verso una produzione a zero impatto. In effetti, solo in tal modo si possono evitare distorsioni concorrenziali che, viceversa, porrebbero a solo carico del nostro Paese (dei consumatori e del sistema produttivo nazionale) il surplus di costi connessi alla svolta green.
Proprio per questo motivo, è necessario un pari impegno di analisi e coordinamento delle attività internazionali su ambiente e clima, sinergicamente con gli sforzi intrapresi dagli altri Paesi, ed un’azione congiunta di sensibilizzazione e collaborazione nei confronti dei principali responsabili delle emissioni di CO2 a livello globale (c.d.big emitters), e ciò per evitare una faticosa quanto inutile (almeno sotto l’aspetto della tutela ambientale) corsa in solitaria.
Siamo certamente consapevoli che si tratta di una sfida particolarmente complessa, data la diversità di opinioni ed interessi di cui si fanno portatori i vari Paesi e blocchi regionali ma proprio per questo è necessario sviluppare sempre più la c.d. climate diplomacy, in stretta collaborazione con i partner UE e transatlantici, oltre che in contesti come il G7 e G20 e nell’ambito della UNFCCC e dell’Accordo di Parigi.
L’obiettivo della diplomazia climatica da parte del principale Ministero responsabile, quello degli Affari Esteri, non può non essere che quello di mantenere i temi della transizione ecologica ed energetica al centro della discussione nei più importanti tavoli, a livello bilaterale, regionale e internazionale. E questo, stando a quanto si trova scritto sul sito del nostro Ministero degli Esteri, sembra essere una priorità: “La nostra politica estera include pertanto temi fondamentali per l’interesse energetico nazionale quali: la promozione dell’energia rinnovabile e dell’efficienza energetica a livello globale, favorendo anche crescita economica, creazione di posti di lavoro, lotta alla povertà energetica: obiettivi che hanno assunto un’importanza ancora maggiore nella prospettiva di ripresa post-Covid; l’utilizzo, in chiave cooperativa e di benefici condivisi con gli altri Paesi rivieraschi, delle risorse del Mediterraneo, in vista di più ampie collaborazioni strategiche nei settori del futuro (interconnessioni elettriche, produzione di rinnovabili ed idrogeno verde, efficienza energetica, etc); la sicurezza energetica nella transizione, anche in chiave di sviluppo di nuove infrastrutture, necessarie a garantire approvvigionamenti sostenibili, sicuri e diversificati”.
Se le parole corrispondono ai fatti, tuttavia, è cosa ancora da verificare. In effetti va considerato che, soprattutto, importanti Paesi come la Germania e la Francia non sembrano ancora aver imboccato in modo deciso la strada che porta ad una economia sostenibile, atteso l’enorme uso di carbone, petrolio e gas della Germania e la persistente attività di troppe centrali nucleare (peraltro di vecchia generazione) per la Francia. Ma, invero, non sembrano più attivi i paesi Scandinavi (che fanno del green da sempre la loro bandiera) o grandi paesi dell’ex blocco sovietico come la Polonia e l’Ungheria.
Insomma, per questo aspetto, solo tante belle parole, ma i fatti dimostrerebbero che per l’ambiente si va avanti “a macchia di leopardo” e che forse sarebbe più utile, prima d’impegnare il nostro paese in investimenti green, verificare cosa facciano gli altri e modulare le politiche industriali tenendo sempre presente cosa e soprattutto come si “orientano” in nostri “partner” europei.